- Asiago - Sleghe

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Nel primo capitolo della “Storia delle Truppe Alpine” il gen. Emilio Faldella si diffonde sulle vicende in cui, attraverso i secoli, truppe montanare passarono alla storia per tenacia e valore. “In esse si può intravedere la fonte originaria delle tradizioni alpine”, scrive. Di conseguenza, nel fare un rapido excursus dai Legionari romani di Cesare o di Augusto ai “Cacciatori delle Alpi” garibaldini, Faldella accenna ai montanari valdesi ed aostani, valtellinesi e altoatesini, cadorini e friulani, genti di montagna che si battevano, in montagna, contro invasori francesi, tedeschi, slavi. E si sofferma in particolare sui montanari dei Sette Comuni vicentini (Asiago, Lusiana, Enego, Foza, Gallio, Rotzo e Roana), progenitori di quegli alpini che nella prima guerra mondiale fecero dire all’ammirato Paolo Monelli: “I Cimbri dei Sette Comuni, tra i più valorosi fra le Truppe alpine”.



Sull’origine della popolazione di lingua tedesca dei Sette Comuni dell’altopiano vicentino di Asiago, hanno scritto numerosi storici o studiosi di glottologia. A qualsiasi conclusione possano essere arrivati, si può ben dire con lo scrittore Giuseppe Nalli: “Straniero di origine, proveniente da lontane nordiche lande, sembrerebbe che questo popolo avesse dovuto simpatizzare con genti a se stesso conformi per costumi e favella. Ma una volta trasferito su italiche montagne, riscaldato dall’italico sole, legato per industria e commercio alle vicine regioni venete, ben presto immedesimò il suo spirito a quello della nazione italiana e le sue aspirazioni fervettero di continuo lealmente e vivamente per l’Italia. I Sette Comuni, ritenuti figli prediletti dalla Repubblica di San Marco, più volte sparsero per essa generosamente il sangue e più volte, orgogliosi, vinsero e ributtarono dai loro confini le nemiche orde tedesche che minacciose volevano irrompere nelle nostre contrade”. Giustamente potrebbero essere quindi considerati i nostri padri, precursori dei reparti attuali degli alpini di arresto.



Già prima del Mille i montanari ostacolano e punzecchiano i presidi romani nella sottostante valle dell’Astico e i Romani si vendicano facendo puntate sulle montagne, distruggendo l’insediamento Cimbro del Bostel di Rotzo. Più tardi, Re Berengario conferma le donazioni di terre fatta nel 917 dall’imperatore tedesco Rodolfo al principe-vescovo di Padova. Ma i Cimbri non ne vogliono sapere di star soggetti a qualsiasi dominio: fortificano con trincee e palizzate le testate della val d’Astico e della Val d’Assa, e pongono guardie armate nei punti strategici (Brancafora, Eestèl, Purgh, Marcesina, ecc.).



Non si tratta certo di gente del mestiere delle armi, ma di alpigiani che intendono difendere da chiunque i passi montani. Temporanee tutele di Scaligeri e di Visconti sono tollerate solo dopo concessioni di privilegi e immunità. Ezzelino da Romano, il famoso tiranno che ha legalmente acquistato le terre dell’Altopiano, assolda volontari: in varie battaglie questi si guadagnano fama di valorosissimi combattenti tanto da far proclamare al Tiranno : "I miei montanari Cimbri e Bassanesi sono i miei soldati più coraggiosi e fedeli: gli altri Veneti, confrontati con questi, sono delle femminucce”.



Sei secoli dopo, nella prima guerra mondiale, i loro discendenti alpini dei battaglioni “Bassano”, “Val Brenta” e “Sette Comuni” non furono certo da meno nel difendere le montagne natie. Scomparso Ezzelino, i comunigiani pretendono la totale indipendenza e la difendono per secoli contro chiunque attenti alla loro libertà, costituendo la famosa “Reggenza dei Sette Comuni”, con piccolo ma proprio esercito. L’elemento maschile della popolazione sa fare buon uso delle armi, ma il minuscolo esercito é raccogliticcio e non troppo bene organizzato: mancano soprattutto esperti capi militari e armi efficaci, che solo la vicina Repubblica Veneta può fornire. La Spettabile Reggenza dei Sette Comuni decide dunque di legarsi ad essa, salvaguardando ogni immunità ed ogni privilegio: “Pristina iura tenent - dantes sua sponte Leoni” (Si concedono di propria volontà al Leone, mantenendo gli originali diritti, n.d.r.).



Il Doge Michele Steno – siamo nel 1404 – gradisce l’offerta, promettendo forniture militari, invio di capi militari per l’istruzione delle reclute comunigiane, rapporti commerciali particolarmente favorevoli alla Reggenza. I montanari promettono a loro volta di salvaguardare i confini settentrionali con soldati propri, di permettere l’arruolamento di volontari alpigiani nell’esercito regolare di San Marco, di fornire legname per le navi e carbone vegetale. L’alleanza durerà quattro secoli. Gli abitanti dei Sette Comuni (“Sleghe un Lusaan – Genewe un Wusche – Ghelle, Rotz Rowan – dise sain sieben alte Komeun – prudere liben!”: Asiago, Lusiana, Enego, Foza, Gallio, Rotzo e Roana, questi sono i sette vecchi comuni, fratelli cari. La contrada di Conco godeva degli stessi diritti del Comune di Lusiana, cui era annessa, n.d.r.), si battono per la difesa della propria terra, facendo contemporaneamente gli interessi di Venezia.



Tanto che Caldogno, l’inviato di Venezia sull’Altopiano, in una sua relazione si esprime così: “Essendo questi popoli ferocissimi, nati ed allevati nel freddo e nel caldo e in continue fatiche e sudori, e fatti molto robusti et bellicosi et naturalmente inclinati alle guerre ...parono più atti ad ogni atione e per la disposicione dell’aria ivi più d’ogni altro luogo di quelle montagne di maggior bontà, che perciò rende gli uomini più abili et disposti alla milizia nella quale hanno fatto e fanno tuttavia grandissima riuscita…”. E propone la costituzione sull’Altopiano di una milizia stabile locale, con unico scopo la custodia del proprio paese e dei passi alpini di confine, esonerata da qualsiasi servizio militare al di fuori del proprio territorio. Nel 1435 i montanari dei Sette Comuni, al comando dei fratelli Cerati, battono i Viscontei in lotta contro Venezia e Venezia, premiandoli con denaro e privilegi, insiste per la miglioria delle difese al valico di Vezzena.



Quando Sigismondo d’Austria tenta la via della pianura “... alquanti valorosi alpigiani da per loro e senza norma, oppongono imbarazzante resistenza ai passi della Valdassa, ma sono sopraffatti”. I soldati di Sigismondo avanzano incendiando e rapinando: vengono dati alle fiamme i paesi di Roana, Canove ed Asiago. La famiglia asiaghese dei Basso oppone una resistenza così eroica da veder poi tramutato il suo cognome in “Forte”. Gli alpigiani di Roana e Rotzo si battono in Val Martello, respingendo gli invasori. Altre famiglie cimare, Coghi, Salbeghi, Nichele di Lusiana si distinguono per valoroso contegno e ricevono o­norificenze da Venezia “...per aver difeso la Serenissima dagli insulti imperiali opponendo fiera resistenza in Valdassa e altrove”.



Nel 1588 l’altopianese Cerati é incaricato di allestire truppe locali per difendere l’altopiano e Venezia contro gli imperiali. Tra il 1500 e il 1600, parecchi volontari altopianesi diventano capitani e condottieri sia nell’esercito regolare veneziano sia in compagnie di ventura. I vari Dall’Olio, Mosele, Bonomo, Carli, Finco, Rossi con buona scorta di alpigiani si fanno o­nore in fatti d’arme oltralpe, in Francia, Corsica, Spagna, Portogallo, Ungheria e Levante.



Il più glorioso fatto d’arme per i montanari della Reggenza avviene negli anni 1508-1509. L’imperatore Massimiliano 1°, in un inverno mite e senza neve, sale dalla Valsugana con l’intenzione di prendere alle spalle l’esercito veneto che stanzia in pianura. Pochi ma valorosi soldati dei “Sette Comuni gli contendono a lungo il passo, ma l’imperatore scatena le sue bande nella conca dell’Altopiano ad incendiare e depredare. Il paese di Lusiana, con montanari di Conco e Gomarolo, riesce a fermare i nemici al passo del Pùffele, e Massimiliano ripiega ad Asiago da dove, costretto da improvvise e straordinarie nevicate, é obbligato a ritornare per la Valdassa verso la Valsugana. Gian Giacomo Geremia, capitano Cesareo, raggiunge ugualmente Asiago, autoproclamandosi governatore a nome di Massimiliano, ma viene umiliato e cacciato.



Per punire gli altopianesi della resistenza opposta e del rifiuto del proprio governatore, Massimiliano tenta ancora, dopo aver cercato per la Val Brenta (con fiera opposizione di ardimentosi di Foza, Enego e Valstagna che fanno precipitare sulle truppe imperiali, all’andata al ritorno, massi dalla montagna) la via della Valdassa, ma gli alpigiani sbarrano la strada con tagliate e trincee da Val Scaletta al Restello, mentre il capitano veneto Angelo Caldogno si mette all’agguato con 1.000 fidi alpigiani. Giunta al Restello, l’avanguardia tedesca viene prima arrestata dai difensori dello sbarramento e poi assalita da ambo i lati dai montanari del Caldogno. Gli imperiali di Massimiliano “funestati da ogni parte da varie e spaventose forme di uccisione e di morte”, prima indietreggiano e poi si danno a fuga precipitosa, travolgendo il resto dell’esercito che sta risalendo dalla Valsugana, incalzati dai militi Settecomunigiani. È una splendida vittoria: la popolazione dell’Altopiano, ammirata, ne è orgogliosa. I suoi uomini sanno battersi proprio bene.



Dopo un ennesimo tentativo di Massimiliano di salire sull’Altopiano, e questa volta da Marostica, bloccato dai montanari di Lusiana e di Conca nel novembre 1509, è la volta dei francesi del generale La Palisse che, respinto dalla locale milizia alpigiana di Lusiana e di Conco, arretra a Marostica. Squadre montanare assaltano di sorpresa i soldati francesi di scorta ai convogli delle armi e rifornimenti: su 400 ne uccidono 200 e altri 200 vengono catturati. Non basta: nel 1513 tocca agli spagnoli: non hanno nemmeno il tempo di lambire i margini dell’Altopiano che i settecomunigiani al comando di Manfrone li assalgono all’improvviso a Sandrigo, catturando armi e prigionieri. All’arrivo dei rinforzi spagnoli, i nostri si ritirano in buon ordine sulle colline di Crosara.



L’anno dopo, in febbraio, un migliaio di soldati teutonici al comando di Caleppino sono fermati in Val Brenta dagli uomini di Valstagna (una delle contrade annesse della Reggenza), armati alla meglio “con archibugi, ferri taglienti ed ascie”; tutta l’avanguardia tra cui Caleppino, viene catturata e consegnata a Venezia. Dopo le lotte contro gli eserciti della lega di Cambrai, un tentativo dell’imperatore Carlo V si spegne agli inizi e gli alpigiani badano a frenare tentativi di usurpazioni del loro territorio da parte dei Valsuganotti: nell’agosto del 1602 li ricacciano giù dalla strada della Pertica, costringendo i mandriani e i pastori restanti a giurare fedeltà a Venezia. La famosa “Sentenza Roveretana” mette fine ad ogni dissenso di confine, sebbene a detrimento dei Sette Comuni, almeno per territorio. Si trova il modo, così, di istituire la nuova Milizia Stabile. Lo consente, nel 1606, un decreto del Doge che mette a disposizione 1.200 archibugi.



Tutti gli uomini possono portare armi, perfino in chiesa (prima era vietato dal vescovo di Padova). Il capitano veneto Francesco Caldogno organizza i reparti, ripristinando una ferrea disciplina militare. La denominazione ufficiale del piccolo esercito che era dapprima: “Milizia dei Sette Comuni”, con l’annessione di paesi della Val Brenta diventa: “Milizia dei Sette Comuni e del Canale del Brenta”. Nella milizia si continua a parlare la lingua cimbra ma a poco a poco viene introdotto il dialetto veneto. Il motto é: “Siben Commeun bohùtent- sich” (I sette Comuni si difendono) e la bandiera è un grande drappo bianco con Leone di San Marco sul verso e stemma dei Sette Comuni (sette teste) sul retro. L’armamento consiste in 400 moschetti e 850 archibugi per i gregari e il terzaruolo (moschetto molto corto) per i graduati, per un organico di circa 1.500 unità. Altra arma individuale è la pistola, da portare sotto la “velada”, giubba verde che mentre prima era in dotazione ai soli graduati, ora é uniforme comune con gilé rosso a bottoni metallici, calzoni corti neri con legacci rossi, scarpe di cuoio. E il cappello è di lana, con tesa all’insù, in cui é inserita una coccarda o un ramoscello di abete. Anticipa il nostro cappello alpino.



Una volta riorganizzata, la milizia non ha però più occasione di venir impiegata in battaglia. Durante la guerra tra Venezia e i turchi, i Sette Comuni forniscono aiuti in uomini e materiali alla Serenissima che riconoscente, premia la Reggenza con l’invio di uno stendardo che ancor oggi si conserva nel municipio di Asiago. Nei fatti d’arme contro i turchi si distinguono l’asiaghese Domenico Barbieri con una centuria di fanti, a sue spese arruolati, e il roanese Marco Sartori, condottiero veneto e governatore della Dalmazia. La pretesa di Vicenza di incorporare tra le sue truppe anche gli alpigiani dei Sette Comuni e di obbligare personale della reggenza a prestare lavoro nella fortezza di Palmanova viene annullata dal Senato Veneto: nessun servizio al di fuori dei propri confini se non assolutamente volontario, affermano i patti con Venezia.



Nel 1725 la Milizia subisce un periodo di crisi: prepotenze del suo comandante che vorrebbe separare Asiago dagli altri comuni, di alcuni sergenti (= capitani) che pretendono ereditarietà del grado e considerevole aumento di paga. Venezia mette ordine. Ed ecco l’ultimo intervento armato della Milizia Stabile Locale: Napoleone Bonaparte scende in Italia e cancella Venezia dalla scena politica: il piccolo esercito cimbro, con armi e bandiere, scende a Verona per ostacolare i francesi ma tutto ormai è inutile. Ritorna sull’altopiano e i Sette Comuni condividono con Venezia la forzata annessione all’Austria. Il “Buon governo”, austriaco tenta perfino di riorganizzare la milizia locale dell’Altopiano, ripristinando gradi, quartieri e mansioni. Ma ormai spira aria di Risorgimento; ed al riscatto italiano l’Altopiano vicentino dà notevole contributo, fino all’annessione del Veneto all’Italia, nel 1866.



A conclusione di questa carrellata storica, per testimoniare l’alpinità dei Sette Comuni e per annoverare i cimbri altopianesi tra i precursori degli alpini, riportiamo i versi che un poeta locale (Ancos) vorrebbe scolpiti alla base di uno dei tanti monumenti agli alpini esistenti nei vari centri della terra asiaghese: “La vecchia libertà nacque qui attorno: quivi, al Rastel, tra voi di sassi e palle subì la lupa nordica lo scorno. Or, dell’Alpin eretto al monumento qui sulla piazza, mostra della schiatta il millenario patrio sentimento!”.

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